di Gianluca Celentano, conducente bus

Nel suo ultimo romanzo “La condanna” pubblicato quest’anno da Rizzoli, il noto (ex) politico e saggista Walter Veltroni racconta attraverso le parole di un giovane giornalista dei nostri giorni un grave episodio di linciaggio avvenuto nella convulsa Roma del settembre 1944. In un’altra sede l’argomento meriterebbe molto più spazio, ma mi sembra importante parlarne brevemente anche su queste pagine perché tra i personaggi coinvolti c’è anche uno di noi, un coraggioso manovratore di tram del tpl romano. 

La storia prende inizio in Tribunale, la mattina in cui si deve celebrare il processo a carico di Pietro Caruso, ex questore della capitale accusato di legami con le stragi naziste. Nell’aula è presente anche Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli e testimone scomodo nel processo all’ex questore. Un processo pubblico dove il Carretta viene riconosciuto dai presenti e additato come responsabile del decesso di alcuni prigionieri reclusi nel suo carcere. (Fatti in realtà smentiti dall’ex segretario socialista Pietro Nenni che attestava invece la liberazione dei detenuti per evitare rappresaglie nazifasciste.) 

La folla incitata alla violenza prende il sopravvento e un colonnello americano insieme a un tenente dei carabinieri riescono solo per poco a sottrarre il Carretta dall’ira dei presenti. Dopo una serie di umiliazioni Carretta viene trascinato fra calci e pugni sopra le rotaie della vicina linea tranviaria. Il collega manovratore Angelo Salvatori comprende subito quanto sta accadendo. Si rifiuta di passare sopra il corpo di Carretta con la vettura, frenandola e sganciando la maniglia del reostato. La folla inferocita lo insulta e lo aggredisce essendo dichiaratamente antifascista. Addirittura alcuni cercano di spingere a braccia il pesante vagone che però rimane immobile grazie alla prontezza di Angelo.

Lo sfortunato Carretta riesce a evitare di morire sotto il tram, ma poi , dopo essere stato colpito e umiliato dai suoi infami aguzzini, viene buttato nel Tevere dove annega, vittima di una cieca giustizia sommaria.

Una morte atroce che apre dibattiti, ma che suscita similitudini con la rabbia sociale di oggi. Una rabbia che spesso – ma purtroppo non sempre – si traduce solo in offensive parole rivolte verso il presunto responsabile di un problema, ma che rende più difficile il ragionamento personale per la ricerca della vera causa di un problema.

Il nostro comparto è frequentemente invischiato in una sorta d’omertà nell’affrontare le problematiche del settore, ma il valoroso collega Angelo Salvatori è la prova che nei momenti difficili a qualcuno di noi il coraggio non è mancato. 

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