La solitudine dell’autista: tra pause infinite e piazzali vuoti
C’è un momento, nella vita di un autista, in cui il rumore del motore si spegne e rimane solo il silenzio. Fare l’autista di autobus vuol dire passare tante ore tra la gente… e altrettante da soli. Roby Merlini, per chi non lo conoscesse, è una persona molto sensibile e riflessiva, e descrive bene, molto […]

C’è un momento, nella vita di un autista, in cui il rumore del motore si spegne e rimane solo il silenzio. Fare l’autista di autobus vuol dire passare tante ore tra la gente… e altrettante da soli.
Roby Merlini, per chi non lo conoscesse, è una persona molto sensibile e riflessiva, e descrive bene, molto bene questo momento: ci sono attimi — soprattutto nei grandi piazzali o durante certe lunghe pause — in cui ti ritrovi solo con il tuo mezzo. Nessun collega in vista, poche voci lontane, il rumore della città che arriva ovattato, quasi a ricordarti che, mentre tutto scorre, tu sei fermo lì. Se poi vai indietro con i ricordi e ti focalizzi su cosa facevi da giovane il sabato sera, beh, probabilmente sale anche la tristezza.
La solitudine come compagna di viaggio
È una sensazione comune in questo mestiere, e forse è anche uno dei motivi per cui tanti lo evitano e altrettanti lo scelgono: un’alternativa al lavoro a stretto contatto, gomito a gomito, di una fabbrica.
In fondo, che si trasportino persone o merci, la dinamica cambia poco; magari utilizzi il tempo di una lunga pausa per recuperare il sonno arretrato, o forse per estraniarti dalla realtà. Anche se seduto dietro a un volante, la stanchezza mentale dovuta anche all’attenzione, si fa sentire enormemente di più che nella guida di un’autovettura. Devi provare per giudicare.
Potrebbe interessarti
Le conseguenze della professione dell’autista di bus turistici su vita personale e familiare
Non è solo una solitudine fisica, ma anche mentale.
Passare da una corsa affollata e rumorosa a un piazzale deserto può lasciare addosso una strana sensazione di vuoto, difficile da spiegare a chi non conosce questa vita. Certo, a volte questi momenti servono a “ricaricare le pile”. Ma altre volte ti chiedi perché sei lì, lontano da casa e dagli affetti; insomma, vorresti goderti il tuo tempo. E te lo meriti, caro autista.
Il tema è (anche) quello delle interminabili “pause inoperose” che tanti autisti conoscono bene: turni di guida spezzettati da ore di attesa, giornate che si allungano all’infinito. Un esempio? I servizi navetta negli aeroporti: magari guidi per sei ore, ma tra pause e orari dilatati la tua giornata non finisce mai prima di undici ore. E nel noleggio si arriva facilmente a molto di più.
Non sempre questa solitudine pesa. A volte ti aiuta a rimettere ordine nei pensieri, a trovare un tuo equilibrio. Altre volte, invece, può diventare faticosa, soprattutto nei turni serali o nei giorni festivi, quando il piazzale sembra ancora più vuoto e il tuo lavoro più distante da tutto il resto.
Saperlo riconoscere a noi stessi è fondamentale, non per drammatizzare, ma per affrontare questa sensazione con consapevolezza. Sapere che capita a tutti, prima o poi, aiuta a vivere meglio e a capire quanto possa contare anche solo un saluto tra colleghi, uno sguardo d’intesa tra due bus che si incrociano, una telefonata tra colleghi condicenti: piccoli gesti che ti ricordano che, anche nella solitudine più profonda, non sei mai davvero solo.
di Cristian Guidi